Cambiare “dal basso”: l’ordito e la trama
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Possiamo lamentarci che una opinione pubblica distratta e “deformata” dalla comunicazione mediatica e da “falsi valori” non apprezzi appieno il valore della scuola e dell’istruzione. Ma la prima e onesta obiezione è: chi, sensatamente, l’ha “interpellata”? Il “riformismo senza popolo” semplicemente non funziona.
Due episodi autobiografici che suggeriscono amplificazioni di riflessione risparmiandomi la necessità di dettagliare analiticamente, come premessa a considerazioni che riguardano la politica scolastica e la sua storia.
Fine anni ’70, in pieno fiorire del movimento del ’77, anni di terrorismo, di instabilità politica, di trame oscure. Lavoravo (allora) all’ufficio Studi Economici della Camera del Lavoro di Milano. Per tentare di salvare una (allora famosa) impresa di confezioni, anche ipotizzando di dedicarvi una parte del fondo liquidazioni dei lavoratori, ebbi bisogno di una consulenza di marketing per capire le prospettive di mercato dei prodotti per i quali l’impresa era allora affermata. Tramite amicizie personali ebbi la ventura di usufruire amichevolmente delle competenze di un dirigente della McCann Erikson, famosa impresa internazionale di marketing, che faceva (e fa) ricerche di mercato “di base” (propedeutiche a quelle applicative su singoli segmenti di prodotto). A latere del problema specifico, l’interlocuzione amichevole con quel dirigente di ricerche di marketing mi fece conoscere i dati di una indagine allora appena terminata su atteggiamenti, prospettive, valori del mondo giovanile. Una ricerca base fondamentale sulla quale potevano tessere le loro strategie singole imprese per capire le probabilità di successo dei loro prodotti.
Avevo di fronte, nel dibattito politico quotidiano, la fenomenologia clamorosa di un mondo giovanile attraversato da scontro sociale, violenza, movimenti convulsi nelle università a nelle città, sconfinamenti e fiancheggiamenti con il terrorismo; diritti, libertà e trasgressione reclamati, gridati e agiti senza vincoli.
La ricerca, misurata sul campo, mi proponeva invece una immagine del mondo giovanile rifluente su valori tradizionali. I legami famigliari, la ricerca di sicurezza, una certa ripresa religiosa. Attenzione ai consumi “selezionati” (e non più di massa), sensibilità alla “qualità” e alla “differenziazione”. Ripiegamento prospettico sul nucleo famigliare. Una contraddizione clamorosa, rispetto all’opinione corrente e alla elaborazione culturale che veniva proposta quotidianamente da molti “costruttori” di opinione, ma anche da gran parte del “senso comune” che veniva elaborato attraverso a comunicazione di massa.
Di fronte alle mie contestazioni il mio interlocutore sorrideva sornione, e chiudeva la discussione semplicemente invitandomi ad aspettare per vedere direttamente “come sarebbe andata”. Gli anni successivi dimostrarono ampiamente la fondatezza predittiva di quella ricerca e insegnarono a me la necessità di non accontentarmi delle percezioni guidate dalla elaborazione del “senso comune” (progressista o conservatore che fosse) elaborato dalla comunicazione di massa. Ciò che poi fu chiamato “riflusso”, come fosse una “risposta” a quanto accaduto, in realtà era già in opera “dentro” i processi che leggevamo falsati dalle nostre intenzioni, o anche semplicemente dalle “deformazioni” di osservatori-interpreti.
Di fronte alla complessità sociale è sempre necessario procedere con l’impegno della “falsificazione”: analisi, libertà interpretativa rispetto agli stereotipi; diffidenza verso ogni suggestione sulla “inevitabilità progressiva” della storia; fatica del comprendere, del misurarsi con “i dati” e non solo con le “intenzioni”; distinzione feroce tra l’autorappresentazione e la “misura” della realtà. La specificità delle fasi storiche richiede strumentazione analitica specifica: in quel caso la “sociologia empirica” mostrava ciò che “l’analisi politica” lasciava in ombra.
Alcuni anni più tardi (facevo un altro lavoro) mi imbattei in un Circolo Didattico di un paese della Lomellina, ospitato da decenni (anzi dall’unità nazionale) sempre nel medesimo edificio comunale e dotato di un ricchissimo archivio sulle popolazioni scolastiche che vi erano transitate (documenti amministrativi, iscrizioni, pagelle, relazioni dei maestri, comunicazioni con le autorità scolastiche e con il Comune…). La ricerca su quell’archivio scoprì un vero e proprio giacimento di risorse di ricostruzione e analisi storica (“vera” ricerca storica). Ne cito solo una: il passaggio della scuola attraverso il 25 aprile 1945, la Liberazione e la costruzione della Repubblica. Bene: i registri, le relazioni dei maestri, la documentazione “ufficiale” non ne recava traccia, salvo la correzione delle intestazioni dei documenti. Come se nei registri dei maestri fosse semplicemente tracciata una linea di demarcazione tra un “prima e un dopo”, ma senza che vi fosse traccia di ciò che cambiava tra quel prima e quel dopo. Per la verità solo in qualche “diario” di classe (e significativamente solo per le maestre, ma non per loro colleghi maschi: allora la presenza femminile non era così assolutamente dominante come oggi, e soprattutto dalla classe terza in poi i maestri maschi erano molto presenti) vi erano righe di commento e di ricordo di ciò che nel Paese era nel frattempo accaduto. Dai documenti emergeva una assoluta (rassicurante? indifferente?) “continuità”. La scuola, a questo livello “molecolare” del piccolo paese della provincia pavese appariva “preservata” dalla storia. Ben differente ovviamente la rappresentazione politica e istituzionale ufficiale e a livello della “grande storia”. Ma, probabilmente, i “maestri maschi” avevano potuto silenziosamente disfarsi della “divisa” che il regime faceva loro indossare se e quando partecipavano alle “adunate”. Continuarono a fare il loro lavoro, sia pure con altri libri e sussidiari e sollevati da ogni impegno di “mistica” del regime. Continuità, continuità…
Anche in tale caso l’insegnamento che ne deriva scaturisce dalla constatazione della contraddizione tra le “rappresentazioni macro”, le elaborazioni ideali-ideologiche della realtà, e la sua dimensione “molecolare”, quella che in silenzio elabora continuamente la materialità del “fare storia” e che finisce regolarmente con lo smentire quelle rappresentazioni.
Entrambi gli episodi autobiografici citati testimoniano il rischio costituito dalla costanza di paradigmi di lettura della realtà che provengono dalle stratificazioni di senso consolidate, rispetto alla necessità, a fronte di processi di svolta, di transizione, di passaggio storico-sociale, di rivedere profondamente tali paradigmi, falsificandoli, rimettendoli alla prova della realtà, per quanto faticoso o sgradevole ciò possa essere.
La storia provvede a “fossilizzare” il pensiero che sia incapace di interpretarla: ma i processi di fossilizzazzione hanno, per definizione, un lungo periodo. E i “fossili” si scoprono in quanto tali solo “alla fine”. Vorremmo tutti, immagino, anticipare… Per chi vuole mantenere e affermare l’umano compito non solo di interpretare ma di “fare” la storia decidendo e agendo per il bene comune (la politica) non c’è maggiore rischio di quello di rimanere incapsulati in tali processi.
La scuola e l’istruzione sono settori che, da questo punto di vista, possono essere considerati esemplari per tale esercizio di radicale rinnovamento di paradigmi analitici e conoscitivi. La “continuità” rappresenta infatti per l’istruzione un “valore fisiologico” e funzionale. La tradizione culturale alimenta la funzione stessa della riproduzione sociale cui la scuola e l’istruzione sono “specializzate”. Il rischio della “fossilizzazione” che procede per stratificazioni successive è dunque particolarmente elevato e per qualche verso ineliminabile. Guai dunque a trascurarlo…
Viceversa la scuola è come “ecclesia semper reformanda”. Necessita cura permanente di analisi, di critica, di vaglio della ricerca. Trascurare questa dimensione finisce per avere, anche predicando il contrario, una deriva permanentemente “conservativa”, con qualunque cosmesi si mascheri. Tanto più quanto i sistemi di istruzione assumano come nel caso dei sistemi nazionali moderni, dimensioni di grandi apparati organizzativi che, come si sa, alimentano la propria autoconservazione attraverso la stessa auto consistenza degli interessi “interni” all’apparato, anche a prescindere dalla sua funzione sociale.
Io credo che stiamo attraversando, consapevoli o meno, una di quelle fasi storiche che propongono interrogativi radicali. Per i sistemi di istruzione stanno cedendo e venendo meno tre pilastri sui quali sono stati storicamente edificati (per come li conosciamo oggi e ne abbiamo quotidiana esperienza).
1) Il primo è il significato e il RUOLO DELLO STATO NAZIONALE come contenitore delle regole e dello sviluppo sociale, dei sottosistemi istituzionali (tra i quali fondamentale è l’istruzione pubblica), dell’esercizio della deliberazione democratica; 2) il secondo è il MODELLO DEL WELFARE nel quale tale funzione dello Stato si declina in termini di organizzazione dei servizi ai cittadini per realizzare i “diritti sociali” di cittadinanza, dedicando a tale soddisfazione quote ingenti delle risorse pubbliche (la cittadinanza costruita e alimentata sulla spesa pubblica); 3) il terzo è la connessione fisiologica e scontata (per una lunga fase storica di cui siamo figli) tra SVILUPPO DELL’ISTRUZIONE, SVILUPPO SOCIALE E SVILUPPO ECONOMICO. Vedi “Sistema di istruzione: le strategie del futuro”).
I corollari di tale triplice crisi costituiscono un insieme analitico che non è possibile esplorare compiutamente in questo spazio. Ne cito solo tre. 1) In primo luogo lo spazio della deliberazione si deforma e entra in tensione rispetto alle sue modalità tradizionali di esplorazione. La decisione politica che si riverbera sulle vite dei cittadini si concentra in altri luoghi dove per essi è impossibile intervenire: in dimensione internazionale spesso irraggiungibile dalla deliberazione di cittadinanza; o viceversa in dimensione ristretta, localistica, attraversata da interessi e istanze particolari, non rapportabili al “bene comune”. La politica scolastica (dal basso o dall’alto) è attraversata da tale tensione. 2) In secondo luogo l’insostenibilità economica della spesa sociale che ha provveduto per il passato ad alimentare l’integrazione dei diritti sociali di cittadinanza tramite la spesa pubblica propone come necessaria la revisione profonda del “compromesso sociale” e in particolare del “compromesso fiscale” che ha alimentato quel modello. Senza tale radicale mutamento “quel” modello di welfare è sostanzialmente insostenibile, né sono sufficienti le correzioni contingenti: servono solo a rinviare il problema. (Qualche Ministro dell’Economia lo sa, ma non lo dice o non può/vuole dirlo…). 3) In terzo luogo l’incorporazione organica del sapere entro la produzione di valore e la selettività e il grado di obsolescenza con i quali ciò avviene (attenzione all’ideologismo intrinseco della cosiddetta “società della conoscenza”) che si riflettono in selettività e obsolescenza del “quale e del quanto del sapere”, e in selettività e obsolescenza del “chi” rispetto al corpo sociale, propongono la questione complessa della distribuzione e circolazione sociale e intergenerazionale del lavoro. Oltre naturalmente a proporre quella fondamentale degli istituti di protezione e di garanzia sociale del lavoro e del reddito (uno sviluppo ulteriore dei diritti sociali come il “reddito di cittadinanza”?), investendo alla radice la composizione e gli equilibri della formazione sociale e la sua riproduzione. Se è così il “primo investimento per il futuro” sarebbe la drastica riduzione della differenziazione nella distribuzione del reddito…
Il sistema di istruzione di massa è attraversato a tale “bufera storica”. Il primo e fondamentale requisito di onestà intellettuale per affrontare tali questioni è riconoscere drasticamente e dolorosamente che non abbiamo un patrimonio di elaborazioni e proposte riformatrici solide cui ispirarci e nemmeno “fossili” storici da riportare alla luce. O meglio: abbiamo importanti “sedimentazioni” di capacità e esperienze innovative esplorate in passato e agite ancora oggi (basterebbe apprezzare tanti contributi che animano Education 2.0) ma non l’ordito sul quale intrecciare tale patrimonio per tessere una nuova tela. Le dislocazioni storiche che stiamo attraversando falsificano gli stessi paradigmi riformatori con i quali abbiamo affrontato la politica scolastica negli ultimi quarant’anni. E sono processi e faglie profonde, in atto da tempo (almeno dagli anni ’80), e non solo prodotti di una recente postmodernità. Vale l’insegnamento ricordato in proposito in testa a questo contributo. Ma l’insufficienza storica della politica scolastica italiana nell’affrontare radicalmente i momenti di svolta è datata da più lungo periodo. Per ribadire la metafora proposta abbiamo “fossili” importanti con i quali fare i conti.
La Commissione interalleata che fu insediata nella fase di passaggio dalla Liberazione al ricostituirsi dello Stato italiano dopo il 1943 aveva una Sottocommissione impegnata a delineare prospettive nuove per il sistema di istruzione italiano. A sua guida era un pedagogista americano, Carleton Washburne, che era allievo di Dewey. Nel 1947 consegnò alle autorità italiane ricostruite dopo la liberazione un rapporto di analisi storica e di proposte sul sistema scolastico che sarebbe interessante ancor oggi rileggere. Il rinnovamento che veniva proposto, sia in termini ordinamentali che per l’ispirazione pedagogica e didattica aveva carattere drasticamente innovativo, appena corretto dalle preoccupazioni, che già si affacciavano, di “chiudere” ogni varco al “pericolo” comunista. L’ispirazione deweyana era evidente. Come si sviluppò la cosa e che esiti ebbe sappiamo. Quel rapporto finì nei cassetti chiusi della politica italiana. Anche qui, rispetto alla cesura storica costituita dalla Repubblica, dalla stessa Costituzione, prevalse la continuità, come nella scuola della Lomellina, citata in apertura.
Non mancarono nei decenni successivi né l’azione politica di rinnovamento, ma sempre settoriale e per “ordinamenti” parziali (le elementari, le medie, l’infanzia sempre fuori dall’ordinamento dell’obbligo, la “manutenzione” degli indirizzi della secondaria), né una elaborazione culturale vivace e propositiva. Basterebbe ricordare i “nuclei” di organizzazione culturale costituiti attorno a riviste come “Scuola e Città” o “Riforma della scuola”; ma anche in campo cattolico, figure come Gozzer, Pedrazzi. Ma sempre una trama senza l’ordito di una politica scolastica riformatrice capace di dare sbocco e mettere a frutto l’elaborazione culturale.
Dal 1946 (64 anni), 34 Ministri dell’istruzione (25 del medesimo partito). Dove si appoggia la continuità di una politica su un settore che, necessariamente, ha il passo della “lunga durata”? La “politica scolastica” è stata appannaggio del top management amministrativo: le riforme affidate a chi ne era contrario… Ma dentro tale storia si consumarono gli stessi paradigmi riformatori (si pensi alla secondaria superiore) mantenendosi sostanzialmente inalterati anche di fronte a modificazioni profonde della realtà che avrebbero voluto-dovuto riformare (la massificazione della scuola, il cambiamento del rapporto con lo sviluppo economico e sociale e con la “domanda sociale”), fino a essere del tutto inefficaci lungo un intero quarantennio (dal 1971 quando si impostò la questione della riforma della secondaria, ad oggi). Il “residuo” comune di tale lunga storia è costituito da due costanti della politica scolastica che sono datate fin dal primo periodo unitario (da Casati in poi una costante con pochissime e parziali eccezioni).
In primo luogo mai, ma proprio mai, nella sua storia unitaria, il nostro Paese fu chiamato in “assemblea” per confrontarsi con “il” problema di quale scuola darsi, con quali valori e perché. Fu sempre questione giocata tra “classi politiche” o tra gli “addetti ai lavori”. (E neppure tanto tra gli intellettuali capaci di sfuggire comunque all’interrogativo). In secondo luogo, e conseguentemente, la politica scolastica dall’unità in poi fu più marcata dalla attività decretizia dei diversi governi e da quella gestionale della amministrazione che non da quella del Parlamento e della dialettica politica esplicita. Così fu per la “legge fondativa” di Casati, ma così è anche per gli interventi più recenti. E non mi riferisco solo al ricorso agli strumenti delegificati, e sottratti alla dialettica parlamentare (spesso costituzionalmente impropri), da parte di questo Ministero; ma anche alla politica scolastica di diversa maggioranza: è un fatto, per esempio, che una innovazione potenzialmente radicale, “di sistema”, come l’obbligo scolastico si sia affermata tra le pieghe di un provvedimento che di altro si occupava come una legge finanziaria. Gli esiti di tali “scorciatoie” che fanno a meno del confronto “di sistema” sono sotto gli occhi di noi tutti.
La democrazia è una “forza produttiva” soprattutto nelle fasi di transizione. Farne a meno è esiziale.
Possiamo dunque lamentarci che una opinione pubblica distratta e “deformata” dalla comunicazione mediatica e da “falsi valori”, non apprezzi appieno il valore della scuola e dell’istruzione. Ma la prima e onesta obiezione è: chi, sensatamente, l’ha “interpellata”? Il “riformismo senza popolo” semplicemente non funziona.
Franco De Anna